“Walking Dead’s Genesis” di Pier Marrone

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Tardivamente, sono divenuto un consumatore di serie televisive, non privo di una moderata compulsività, che chi mi conosce, non faticherà ad attribuirmi. Alcune le trovo francamente spettacolari, altre noiose, come è ovvio che accada con un’offerta così vasta, destinata ad incontrare una molteplicità di segmenti di mercato, dotati di visioni estetiche, e di preferenze di altra natura, eterogenee.

Ho visto con soddisfazione e senza mai annoiarmi le prime cinque stagioni di The Walking Dead e sto gustando gli episodi della sesta, che non hanno deluso, almeno sinora, le mie aspettative di spettatore fedele. Il plot della serie è piuttosto semplice e certamente non originale. Il protagonista, Rick Grimes, un ex-sceriffo di una piccola cittadina americana, rimasto ferito in uno scontro a fuoco, si risveglia nella stanza d’ospedale dopo un breve coma, in un mondo completamente cambiato. Una infezione si è diffusa in maniera rapida ed esponenziale nell’intero pianeta e ha trasformato quasi l’intera popolazione umana in una massa compatta di zombie.

Gli zombie hanno morfologie umane (ricordano nell’aspetto esteriore i nostri amici, le nostre fidanzate, anche i colleghi con i quali mai siamo andati d’accordo, anche se francamente sono tutti abbastanza sciupati e in via di decomposizione), ma sono interiormente, per quanto è relativo alla loro vita mentale, del tutto diversi da noi. Non hanno probabilmente una vita mentale cosciente e non sono in grado di imputare a se stessi intenzioni complesse, come siamo in grado di fare normalmente noi nei giudizi, che popolano i nostri dialoghi interiori (cose del tipo “adesso vado a farmi una doccia”, “tra mezz’ora ho un appuntamento”, “parenti serpenti” e via banalizzando o malignando).

Reagiscono a stimoli elementari, il rumore e la fame, principalmente. In questa loro elementarietà sono fondamentalmente equanimi, che si tratti delle liriche neo-melodiche di Gigi D’Alessio, del Flauto Magico di Mozart, di Like a Rolling Stone di Bob Dylan non riescono a distinguerle dal rumore di una pila di piatti che si frantuma a terra, ma si dirigono immancabilmente verso la sorgente sonora, animati nella loro natura di macchine biologiche andate a male dalla speranza, altrettanto meccanica, di incontrare una fonte di cibo. Questa fonte di cibo è prevalentemente carne umana della quale sono indifferentemente ghiotti.

Come si capisce, non siamo in presenza di una grande originalità nello spunto della vicenda. Nulla che non si sia visto già in precedenza, anche recentemente, ad esempio nel libro World War Z, di Max Brooks, dal quale è stato tratto un deludente blockbuster con Brad Pitt. In entrambi i casi, l’idea è quella di un conflitto interazziale, ma forse sarebbe più esatto parlare di una guerra interspecie, per occupare il vertice della catena alimentare.

Gli zombie costituiscono anche un intero capitolo di problemi filosofici distinti (dico sul serio: c’è una vasta letteratura specialistica sul cosiddetto zombie problem), che riguardano principalmente il ruolo della coscienza nell’esperienza. Nella finzione filosofica non c’è, tuttavia, spazio per l’horror, poiché gli zombie dei filosofi sono esattamente come noi esseri umani normali dal punto di vista del comportamento esteriore (mangiano, dormono, vanno al lavoro, fanno sesso proprio come noi), ma sono privi di coscienza. Alcuni negano che gli zombie siano anche soltanto possibili teoricamente, che sia, in altre parole, possibile che esista un’esperienza senza coscienza (il termometro non fa esperienza delle variazioni ambientali di temperatura; la mia gatta che cerca il tepore del mio corpo, quando cerco di guardare il telegiornale, invece sì; la medusa non si sa bene dove collocarla).

Questa concettualizzazione potrebbe gettare luce su un problema filosofico importante. Se gli zombi sono possibili, anche se non attualmente esistenti, allora il cosiddetto ‘fisicalismo’ (l’idea che tutto nell’universo sia riducibile alla realtà che le leggi della fisica governano) sembrerebbe essere falso, dal momento che la realtà potrebbe funzionare egualmente bene sia con la presenza della coscienza, di cui siamo dotati noi esseri umani e altri animali, sia in assenza di coscienza­­. Il fisicalismo, infatti, non sarebbe necessario (e sufficiente) per spiegare la coscienza. Alcuni pensano che questo aprirebbe la strada e/o condurrebbe a rivalutare concezioni dualistiche, che oppongono il corpo e la mente.

Alle spalle di questa contrapposizione tra fisicalismo e dualismo, si colloca un altro problema cruciale, ossia quello delle altre menti. Se io sono sicuro di esistere e di affermarlo semplicemente perché lo penso, come faccio a sapere che esistono altre menti come la mia? “Be’, facile…” direte voi: provate a fare la spesa senza passare per la cassa; cercate di gestire una tresca senza che la vostra fidanzata se ne accorga? Perché è così faticoso? Evidentemente, perché noi agiamo sotto la presunzione di essere circondati da altre persone, che sono proprio come noi, ossia che possiedono una mente che funziona più o meno come la nostra.

Tuttavia, potrebbe essere che ci sbagliamo: quelli che credo essere sguardi di sospetto della mia morosa che non vede l’ora di controllarmi il cellulare, sono soltanto comportamenti meccanici, che si possono spiegare con una lunga, lunghissima, enorme e indefinita catena di connessioni causa-effetto. Se è così potrebbe esserci solo una differenza di complessità tra lei, una Barbie della Mattel e una bambola gonfiabile. Di più: forse al mondo ci sei solo tu con il tuo corpo così simile a miliardi di altri, ma con una mente che sei l’unico a possedere. Come dimostrare il contrario del resto? Non puoi aprire con un cavatappi il cranio del parente più detestato per assaporarne l’indistinguibile bouquet mentale. Se lo facessi vedresti solo un’altra porzione di corpo, nulla di più.

Oltre a questo ultimo, ci sono poi una pletora di problemi minori che la finzione filosofica degli zombie ha fatto sorgere (ad esempio, un nuovo sguardo al problema della distinzione tra concepibilità e possibilità, che posso immaginare non turbi le insonni notti dei fan di The Walking Dead). È chiaro però che questa finzione filosofica è molto distante dalla finzione dei racconti sugli zombie, perché ci dice una cosa di questo genere: “guardati bene attorno: tutte le persone che vedi potrebbero non essere delle persone, ma solo degli automi estremamente sofisticati”. La cosa ti potrebbe lasciare però piuttosto indifferente, perché se il tuo invidiabile lavoro è fare casting per Victoria’s Secret e riesci pure a strappare un appuntamento con qualcuna delle angels  (come vengono talvolta chiamate quelle modelle di superba bellezza), allora ti potrebbe importare anche poco che le sue reazioni in tutto e per tutto eguali a quelle di una persona dotata di mente, siano solo le espressioni meccaniche di un corpo senza mente. Che differenza fa? The Walking Dead, invece, ci dice che la differenza c’è, perché lo zombie, sarà pure completamente ottuso, ma non lo è al punto da non vederti per quello che sei, un succulento spuntino per placare la sua interminabile fame.

Il filosofo che si occupa del problema teorico degli zombie potrebbe aggrottare le sopracciglia annoiato e ritenere tutto questo teoricamente poco interessante. Io credo che si sbaglierebbe. E vengo qui al punto che mi interessa e che riguarda l’attrazione che io provo per questa serie dal plot semplice e dalle vicende in definitiva piuttosto prevedibili in quasi ogni episodio (anche se i dettagli io li trovo realmente appassionanti). Si potrebbe pensare che ne sia attratto, assieme a tanti altri, perché noi, animali bio-meccanici, siamo sedotti dalla serialità, la quale ci rassicura. In questa spiegazione c’è indubbiamente del vero, ma io ritengo sia solo una parte della storia, perché io non credo che l’argomento di The Walking Dead (né delle splendide commedie nere della serie I Soprano, che narrano le vicende di mafiosi italo-americano a New York, o di Narcos sull’ascesa e caduta di Pablo Escobar) siano gli zombie. Nella serie, infatti, spicca anche qualcosa di altro, che è la vera trama su cui si intessono i fili appariscenti delle mandrie di zombie che vagano sulle autostrade e nei boschi cercando di mettere assieme il pranzo con la cena, ossia di metterci noi nel pranzo e nella cena.

Il mondo infestato da zombie è anche un mondo dove è completamente collassata qualsiasi istituzione. Non c’è polizia, non c’è esercito, non c’è sistema finanziario, non ci sono istituzioni religiose, non ci sono scuole o carceri (chissà perché tendo sempre ad associare le due cose), rete elettrica e telefonica. Non ci sono eserciti per fronteggiare le orde di vaganti affamati, non ci sono aerei per mitragliarli o per sganciare bombe, non c’è nessuno che è riconosciuto come leader da tutti gli altri. Potrei continuare a lungo con la lista di queste assenze, ma basta che io dica soltanto che non c’è più lo Stato.

E poi, se vogliamo dirla tutta, non è che gli zombie sarebbero proprio l’unico problema. In un mondo dove non esiste più lo Stato, non esiste più nemmeno la legge. Il risultato è che ognuno tenta di crearsi da solo la propria legge e molto spesso gli altri non sono d’accordo. Insomma: sono tutti contro tutti, alcuni attualmente – zombie contro umani; umani contro zombie –, altri potenzialmente – umani contro umani –. Non ci sono tribunali e l’amministrazione della giustizia tramite la lex talionis (che a Kant, sempre cattivello, sembrava espressione della razionalità) sembra addirittura una benevola utopia. E poi, a pensarci bene, non essendoci più legge, cosa ci starebbero a fare i tribunali? Gli zombie, in poche parole, epitomizzano una condizione ampiamente nota che i teorici chiamano stato di natura. Si tratta appunto di quella condizione dove non esiste lo Stato, ossia dove non c’è alcun sovrano – si tratti di un individuo, un’assemblea, un corpo legislativo – che detiene il monopolio della violenza legittima. “Be’, bella forza” dirà qualcuno, se c’è un sovrano che fa le leggi e ha il potere di applicarle coercitivamente, allora by definition il monopolio della coercizione è legittimo, perché quello che casomai ci interessa non è tanto se la legge sia legittima, ma piuttosto se sia giusta. Ma le cose non sono così semplici, perché il mondo popolato da zombie mette in luce il cortocircuito di una fondazione esterna della legge, si trovi questa fondazione nella legge morale, in Dio o in qualsiasi altra cosa, mostrando come in determinate circostanze la ricerca della fondazione della legge nella sola giustizia sia un comodo lusso. C’è legge solo se c’è la spada, o il revolver o il Kalashnikov capace di imporla. Quindi, il mondo popolato da zombie ci mostra, io credo, che cosa ci sia al di là della legge, almeno nella vita che potremmo sperimentare in questa terra, e quello che c’è è la natura, la sua violenza e la sua indifferenza.

Il tema di un pianeta dove sparirebbe la razza umana è il tema del libro di Alan Weisman, Il mondo senza di noi, che mostra, con una messe impressionante di dati scientifici e tecnici, cosa accadrebbe al mondo se noi improvvisamente sparissimo, perché estinti o rapiti dagli alieni. Il mondo come noi lo conosciamo ha bisogno di un nostro intervento costante 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana. La metropolitana di New York già poche ore dopo la scomparsa degli addetti alla manutenzione comincerebbe a mostrare preoccupanti segni della sua inarrestabile disintegrazione. Le muffe la farebbero ben presto da padrone. Gli animali si riprodurrebbero nell’equilibrio permesso da una catena alimentare dove noi saremmo assenti. Probabilmente non ci sarebbe più una nicchia ecologica per gli orrendi chihuahua, dopo la scomparsa di giovani ereditiere con tacco 12 e trasportini Luis Vuitton, ma chi può dirlo.

Il divenire della natura si paleserebbe per quello che è sempre stato: qualcosa di indifferente alla nostra presenza o alla nostra assenza. Forse l’evoluzione dopo qualche milione di anni produrrebbe ancora, nel gioco casuale della fitness adattiva, un meccanismo analogo alla coscienza senziente che abbiamo posseduto noi. Per essere davvero analogo a noi, dovrebbe poi anche possedere una estesa capacità immaginativa e cooperativa. La commedia forse ricomincerebbe di nuovo e di nuovo ci sarebbe bisogno di uscire dalla natura producendo qualcosa di simile allo Stato. Basterebbe che il corpo raggiunga la consistenza complessa del pensiero capace del conflitto più violento, basato sui desideri e sui fantasmi immaginifici della volontà, per produrre anche la volontà di uscire da quel mondo da incubo dove il conflitto e la morte violenta è sempre in agguato, confutando per sempre l’invocazione di Théophile Gautier: “Plutôt la barbarie que l’ennui!”, perché è meglio una noia ravvivata da qualche considerazione di questo genere, che una vita dove la catastrofe della morte violenta è sempre in agguato. Ed è meglio per un motivo molto semplice, ossia perché nella prima hai la relativa sicurezza di vedere protetto quel bene che è la precondizione per il raggiungimento di qualsiasi altro bene, vale a dire la tua stessa vita, mentre nel secondo caso l’adrenalina continuamente pompata nel tuo organismo non ti garantisce nulla se non la paura.

Questi sono i motivi per i quali ritengo che The Walking Dead e altre serie descrivano maggiori o minori approssimazioni allo stato di natura, dal grado zero, per così dire, dello zombie alla figura del mafioso e del narcotrafficante, o ad altre ancora. La differenza è che nel primo caso siamo nella prossimità di una natura che sta celebrando il suo amorale trionfo (perché deve essere chiaro che gli zombie questo sono, ossia una natura indifferente ai precetti della morale e della legge, una natura che, del tutto legittimamente dal suo punto di vista, ci può considerare come succulento spuntino), mentre nel secondo caso siamo all’interno di figure che parassitano lo Stato, le leggi, i nostri codici morali convenzionali, ma, appena possono, fanno un passo nella direzione di un ritorno allo stato di natura (del resto, il crimine è proprio questo, una volontà di assenza della legge).

Alcuni sostengono che ogni civiltà complessa e evoluta produce impulsi autodistruttivi. È stata questa, ad esempio, la tesi di Freud quando scrisse Il disagio della civiltà. Sembra essere un gioco facile dire che la tesi di Freud è stata ampiamente supportata dalla tecnica (gli ordigni nucleari) e dalle ideologie (incarnatesi nei campi di sterminio) e dalle strategie di sopravvivenza, che quelle stesse tecniche hanno reso possibile (la dottrina della MAD, Mutual Assured Distruction, che ha impedito il conflitto nucleare tra le superpotenze durante la guerra fredda). Tuttavia, la considerazione freudiana sulla distruttività umana non credo soddisfi la domanda che implicitamente vi ho posto, “c’è vita dopo gli zombie?”, almeno sino a quando non viene affiancata dall’idea di una attrazione che lo stato di natura e la sua violenza amorale esercitano su alcuni di noi.

Questa attrazione verso un mondo privo di esseri umani, privo anche della paura e della violenza umane, credo di averla ritrovata in un celebre volume fotografico di Sebastião Salgado, Genesis. Le parole che introducono il volume sono interessanti, perché sono parzialmente smentite poi dal suo contenuto. Salgado vi scrive di aver voluto documentare aree del pianeta non solcate dal piede umano, però, mentre questo è difficile oramai anche da immaginare, si può sempre obiettare che almeno dei piedi, quelli suoi, quei paesaggi li hanno calpestati. Assieme ai suoi piedi sono giunti anche i contenuti dell’immaginazione di Salgado, che alla fine costituiscono il contenuto di pensiero del suo volume. E, inoltre, mentre le maggior parte delle straordinarie allucinate immagini in bianco e nero del volume vedono una sconcertante assenza della presenza umana, tuttavia, questa stessa presenza non manca in numerose foto. Eppure un’assenza umana c’è ed è quella della civilizzazione rassicurante e delle sue forme sofisticate, ad esempio quelle degli abiti, che strutturano e certificano la nostra appartenenza a qualcosa che è ben lontano dalla ferocia amorale della natura. Infatti, le persone che vi sono ritratte sono membri di residue civiltà primitive. Nei loro volti e nei loro corpi io, per lo più, non vedo la sconfitta dell’estinzione (che può essere di particolare fierezza, come viene documentato da un’altra splendida opera fotografica di Jimmy Nelson, Before They Passed Away), ma l’oscenità di una riluttante emersione dalla natura, che sembra sempre fuori luogo rispetto ad altre immagini imponenti di Salgado (i ghiacci, i deserti, le sterminate distese di pinguini, la tartaruga che sembra emergere dalla terra che lentamente attraversa). Su questa emersione l’immagine della zampa pentadattila di un animale non identificato è la straordinaria firma di un artiglio pronta a scattare per riportarci in quella natura niente affatto benevola, simbolizzata dalle fauci dello zombie, che continuiamo a voler credere non sia la nostra genesi.

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